Prima di addentrarci nella presentazione de I Canti del pilota, è necessario fare una premessa di metodo. Per chi ancora non conosce la poesia di Lo Bue, è bene ricordare che tutte le sue raccolte poetiche sono scritte in italiano e spagnolo. Vediamo i titoli: L’opera I Canti del pilota è del 2018. Fa seguito a Itinerari (itinerarios 2017), Il libro errante (el libro errante), Moiras, L’emozione nella parola (por la palabra la emocion), Non te ne sei mai andato (nada se ha ido). Nel 2021 ha invece pubblicato Albero di alfabeti (Arbol de alfabetos).
In queste opere ogni poesia è scritta e riscritta nelle due lingue dalla stessa autrice che ha trascorso parte della propria vita in Argentina.
Ora, passando alla silloge i canti del Pilota, possiamo dire che essa rappresenta la continuazione della raccolta immediatamente precedente, ovvero Itinerari. Anzi possiamo dire che le due opere sono complementari. Infatti, pur nella ricchissima varietà di temi, uno emerge particolarmente, quello del viaggio e della lontananza, termine quest’ultimo che ricorre spesso nella silloge. Se con Itinerari (2017) Francesca Lo Bue tracciava le vie della propria esperienza artistica, con I canti del Pilota (2018) prosegue questo percorso ma ribaltando il punto di vista; ora non è più individuo poetico in cammino ma ella stessa agente del movimento: è il pilota, il timoniere, il gubernator che segna la strada e a cui l’opera è dedicata. D’altra parte la metafora poeta-timoniere è cara alla poesia antica, come pure la metafora vita-nave. Pensiamo al Canzoniere di Francesco Petrarca: “passa la nave mia colma d’oblio/ per aspro mar… ed al governo siede ‘l segnor mio”. Così in prima di copertina troviamo raffigurato un affresco di nave egizia. In un incrocio di sguardi il timoniere è voltato verso l’equipaggio, stende una mano a indicare la rotta; intorno, accanto alle vele spiegate, geroglifici dipinti ci raccontano forse l’arte della navigazione, forse antichi miti marinari.
Ma qual è l’arte di Francesca Lo Bue? In epigrafe sono riportati versi di G. Ungaretti, dall’opera prima L’Allegria, reminiscenza forse richiamata anche dalla copertina, se consideriamo le origini egiziane del Poeta, nato ad Alessandria d’Egitto da genitori originari del lucchese. Quando trovo/ in questo mio silenzio/ una parola/ scavata, è nella mia vita come un abisso. È l’ultima strofa di Commiato che, scritta a Locvizza nel 1916, è dedicata ad Ettore Serra, poeta e critico letterario che partecipò come Ungaretti alla guerra del 15-18 ed ebbe l’onore di editare le prime poesie di Ungaretti con il titolo il Porto sepolto. Ungaretti e Lo Bue sono poeti molto vicini; entrambi hanno vissuto parte della vita fuori d’Italia e si sono riappropriati da adulti dell’italianità anche tramite un acuto e amoroso lavoro sulla lingua, sulla parola, la stessa che richiama l’abisso, come ci dice Ungaretti, ritornato in Italia tra le altre cose per partecipare alla guerra. Ricordiamo che prima di arrivare alL’allegria, Ungaretti aveva pensato in un primo momento al titolo il porto sepolto e, successivamente, “allegria di naufragi”, evidente ossimoro che si spiega con la percezione del miracolo che ha il naufrago nell’istante della salvezza, salvezza che diventa, nell’abisso, squarcio di parola poetica. Nella poesia Bivio Francesca Lo Bue esprime il concetto di un’umanità che rappresenta l’abisso, ha l’aura dell’assenza. Alcuni versi dopo utilizza proprio il termine naufragio, usato per spiegare una distruzione che è il nulla del futuro nel momento in si smarrisce la catena, comunque già interrotta, degli istanti del presente. Ecco quindi che siamo di fronte a un metaforico ma concreto Bivio (il titolo della poesia), ovvero accettare il nulla dell’abisso o resistergli con il riscatto dato dalla forza creativa della poesia? Per questo dicevo che è importante tenere a mente il dato biografico, perché poi lo ricollegheremo al tema del viaggio.
Altro tema estremamente rappresentato è la riflessione metapoetica sul senso della poesia stessa. Emblematica è la poesia l’Abbecedario, un canto diretto ad esaltare l’arte stessa della scrittura. Della penna si dice che contiene l’informazione/l’abbecedario è aggregazione,/l’aggregazione è il libro. Dunque, di fronte all’abisso, alla perdita e allo smarrimento, il naufragio esistenziale, rimane la scrittura, sempre nello stesso testo paragonata a un’affermazione della giustizia, le parole su un papiro avvicinano verso ? le contrade del cielo? si chiede l’autrice.
La poesia dunque, nella sua veste di scavo esistenziale, diviene percorso metafisico e illuminato. La poetessa ne dà un’esplicita spiegazione nell’Introduzione, che ha il titolo eloquente di Pizia ovvero della metafora poetica.
Vediamo che in un primo momento la poesia, ovvero l’arte del nominare, è messa in stretto collegamento con il tempo, con una riflessione che può ricordarci Agostino di Ippona, il Santo autore delle Confessioni, opera che contiene una delle più originali definizioni del tempo: esso è un punto transeunte, il passato esiste come memoria, il futuro come attesa. D’altra parte le stesse Confessioni sono intese da Agostino come recupero della presenza di Dio, da lui chiamata Bellezza antica, presente ma smarrita ritrovabile grazie alla Confessione, cioè l’ammissione tramite le parole che operano lo scavo interiore. Per questo la poetessa ci dice che il presente non ha quasi parole, è una rete aggrovigliata, una bolla morbida che attende di essere rievocata dalla parola poetica. Dissociata, come il porto sepolto di Ungaretti. Questo però non è un cammino lucido e lineare, procede per discontinuità, enigmi, linguaggio criptico, un mezzo quasi oracolare, a cui la Pizia, la profetessa di Apollo, dio tra le altre cose della poesia, rimanda.
Un termine che abbiamo incontrato nell’Introduzione è miele cristallizzato. Nel libro ritroviamo altre tre occorrenze di tale termine. In Ulisse invita l’eroe a non dimenticare la giara di miele e olive, … i pesi delle gemme antiche/ e la collana della sposa. In L’orizzonte, invece, è diventato il miele aspro delle vergini. Infine, a chiudere il cerchio, e a rivelarne il senso, in La casa avita è definito un pallido miele d’amore: la memoria porta i suoi talismani/pallido miele d’amore e gemma invisibile.
Possiamo pensare che certamente questo nettare sia richiamato dall’assolata atmosfera mediterranea che aleggia nella raccolta, ma, Esso, il miele, che può inizialmente sfuggire nel lessico lussureggiante della poetessa, a una lettura più accorta, assume rilievo tematico, quasi a divenire un’epifania di senso. Se il presente è un groviglio di istanti, e il tempo si sfilaccia se non raccolto dalla memoria, strumento cui è deputata la scrittura poetica, la poesia è il frutto paziente del lavoro di tante metaforiche api, ovvero le parole che colgono quei fiori, quegli istanti tenui, delicati e magici.
Ricordavamo prima il lessico molto ricco, quasi sontuoso, usato dalla poetessa. Un lessico della ricchezza della natura e del creato, ove sono presenti amaranti, madreselve, cedri, genziane, zagare, mirti, viti, fiordalisi, cipressi, lilà…la silloge stessa si pone quindi come un vasto e fecondo giardino, da cui germogliano i semi e le radici (altra parola presente e pregnante) della parola poetica. Fiori e alberi. Ricordiamo infatti che l’opera parallela e più recente di F. Lo Bue è intitolato albero di alfabeti, in cui gli alfabeti delle sue due lingue (italiano e spagnolo) sono appunti alberi fruttiferi di poesia.
Ritorniamo dunque al viaggio, inteso non sempre e non solo come spostamento fisico, ma come ricerca interiore.
Per orientarci in quello di Francesca Lo Bue possiamo iniziare riferendoci al testo Il re longevo. Costui, immagine arcana di un essere creatore, è accostato a Venere, il pianeta a lungo creduto una stella, la stella del mattino che anticipa il sorgere del sole ed è per questo chiamato anche Lucifero. L’astro come una bussola, una stella polare, avvicina gli uomini diffidenti…Tu sei Venere, testimonianza precaria…quando appari fra i gigli di luce…tu sei Venere, e mi porti alle terre al di là del mare.
In tal modo ci addentriamo nell’atmosfera del movimento già allusa dagli stessi titoli. Scorriamoli. Abbiamo Esodo, L’Astronauta, Ulisse, L’orizzonte, Bivio, l’Arca, Orizzonte d’occhi, I sogni pellegrini, Venezia… In Venezia il riferimento è esplicito. la città, con la sua storia di repubblica marinara, è definita Libro di viaggi… sentiero del cielo
in altri invece il riferimento al viaggio è più sottile e sfumato, ma non per questo meno presente. È il caso di Ifigenia. Ella è l’eroina greca che, convocata dal padre Agamennone con l’inganno – la promessa di un fortunato matrimonio con l’eroe Achille – viene offerta in sacrificio propiziatorio in modo che i venti riprendano a soffiare e la spedizione achea possa veleggiare verso Troia. La tua vita fantasma chiama nell’ostinazione dimenticata dell’abisso. Un’ignobile illusione [di Ifigenia]…ti chiama al riso per odiare e ferire. Oppure è il caso di Andromeda, altra fanciulla del mito ellenico sacrificata per espiare le colpe dei genitori; ella sconta la vanità della madre Cassiopea che si riteneva la più bella delle Nereidi, le ninfe del mare. Poseidone manda un mostro a razziare le coste, mostro che può essere placato solo con il sacrificio della giovane Andromeda che, per questo, viene incatenata su una scogliera. Di lei e del suo costone di roccia Lo Bue dice che sognava. Sognava un promontorio lontano. Sognava l’orizzonte della sua patria sanguigna (forse la casa avita?).
In tale testo, come in Ifigenia, e in altri accostati a personaggi mitici o storici del passato, ritroviamo un tratto molto caratteristico della poetica dell’autrice. L’abitudine di intitolare a soggetti del mito o della storia e poi sorprendere il lettore. Nei titoli ci sono Andromeda, Ifigenia, Ulisse, Antigone, Beatrice (la giovane nobildonna romana vittima di una famiglia violenta ) Maria Stuarda (questa in Itinerari), Norma… e poi spariscono. Di loro, nel testo, rimangono figure alluse ed evanescenti che solo il lettore più colto ed accorto sa scorgere. Questi personaggi, con il loro nodo di dolore e complessità, sono solo un pretesto per riferirsi ad altro, per ricucire un itinerario interiore e spirituale, per ricomporre un viaggio, proprio quello che il Pilota deve fare. Ogni strumento è usato a questo scopo, ogni solleticazione intellettuale. Si veda L’Astronauta che di primo acchito ci potrebbe anche stupire. Infatti finora abbiamo sentito temi legati al passato. L’astronauta invece ci riporta alla modernità, alla scienza, alla fantascienza al limite. Nel testo troviamo: Sospeso…fra le sfere dell’etere amico, nel sapore del silenzio…sei albero di fortuna e percorso di solitudine.
Talvolta invece il movimento è tutto interno e mentale. Si legga Nella stanza, poesia suggerita dai quadri del pittore Vincent Van Gogh. In questa stanza povera e scrostata spiccano le ali dell’avventura artistica maturata in un profondo, doloroso, ma fruttuoso esilio interiore. Sgocciola il lavabo scrostato nel delirio giallo della tua stanza…nella lontananza del miraggio…quando geme il corvo di sabbia. O anima reclusa…tendi alla terra radiante delle altezze…spazia nel cielo senza province. Notiamo come in questa poesia ci sia un movimento dall’interno della stanza all’esterno del cielo e come sia bella l’espressione “cielo senza province”
C’è in queste poesie il filo rosso di una colpa che aleggia, il catalogo indistinto della colpa dice in Ifigenia. Ma di che colpa si tratta? Credo che più che colpa si tratti di interiorizzazione di una spezzatura che possiamo provare a ricollegare all’erranza, il viaggio di cui il pilota si fa interprete. Chiave ne è Ricordo un nome che fugge dall’isola cerulea nella poesia Ulisse. Ciò che si è perso e che deve essere ritrovato nel viaggio poetico è il “nome”, la stessa ossessione di Ungaretti, la parola, la lingua perduta, nel passaggio tra Italia e l’Argentina.
C’è però anche una profonda riflessione sul destino, in questi personaggi fortemente toccati dall’inconsueto, obbligati a riappropriarsi di ciò che malie esterne (ira degli dei – Ulisse, Ifigenia, Andromeda) o imposizioni sociali (Antigone, Beatrice, Maria Stuarda, Norma) hanno loro prepotentemente tolto.
La poetessa ridà loro giustizia nominandoli, affidando al talismano poetico, questo miele, un ricordo di giustizia.