MARCO FERRAZZOLI “Riduzione del danno” (Gattomerlino)
nota di lettura di Lorenzo Pompeo

Marco Ferrazzoli, Riduzione del danno. Rime, versi, distici ed epigrammi, Gattomerlino (serie amaranto diretta da Piera Mattei), Roma 2025, pp. 146  nota di lettura di Lorenzo Pompeo

A quindici anni di distanza dalle Macchie di Rorschach (edito dall’Ass. Terre Sommerse, collana Hypnose, a Roma), la sua precedente raccolta di poesie uscita nel 2010, Marco Ferrazzoli, Per 18 anni (dal 2005 al 2023) Capo Ufficio Stampa del CNR, docente di Comunicazione della conoscenza all’Università di Roma Tor Vergata e al Master di Comunicazione scientifica dell’Università di Parma, giornalista professionista dal 1995 (ha collaborato con numerose testate, occupandosi principalmente di mass media, cultura, spettacolo e cronaca), autore di diverse monografie tra cui: Pandemia e infodemia. Come il virus viaggia con l’informazione (con Giovanni Maga), Parola di scienziato. La conoscenza ridotta a opinione, si cimenta nuovamente con il suo genere poetico prediletto, l’epigramma, realizzando quello che lui stesso, sull’aletta della copertina, definisce “un ottimo supporto per peggiorare il nostro umore (“un’àncora, sì, ma per andare ancora più a fondo” — precisa l’autore). Il lettore è avvisato. Del resto, Ferrazzoli stesso, nell’epigramma Nonsenso informato, posto a chiusura della raccolta, ci aveva avvertito:

Il libro non ti è piaciuto?
Peccato
però eri stato avvisato:
avevi anche firmato
il nonsenso firmato”

Anche per questo, in relazione a questa raccolta di poesia, voglio una parola che raramente utilizzo e rivolgo ai poeti viventi: onesta. Una raccolta che mantiene le promesse e le premesse da cui parte. Non cambia strada, non si dilunga in inutili considerazioni, non vuole insegnare, nessuna demagogia, ideologia, consolazione. Le parole sono poche (quasi tutti i componimenti sono di quattro versi) ma scelte con estrema cura, il ricorso alla rima è chirurgico, secondo la tradizione dell’epigramma fondata da Marziale, maestro indiscusso della battuta caustica e del componimento breve mordace, spiritoso e feroce allo stesso tempo, nel mondo latino. Se Marziale fu il fondatore, il suo spirito caustico trovò un erede eccellente in Italia con Giuseppe Giusti (1809–1850). Questo toscano, armato di rima popolare dimostrò che la brevità fulminante poteva essere un’arma perfetta per sbeffeggiare con elegante ferocia i trasformisti e gli arrivisti dell’Ottocento anche in italiano. A questa linea di brevitas polemica appartiene, per paradosso, anche il magistrato borbonico Ferdinando Ingarrica (1787–XIX sec.), le cui involontarie e zoppicanti quartine didascaliche, grazie alla loro ingenua bruttezza (“La poesia è quella cosa / ch’è diversa dalla prosa / È perciò che prosa e vers / Sono generi divers” — scriveva il napoletano), diventarono un modello della satira demenziale e fulminante.  Ma tra i maestri del secolo scorso, lo stesso autore indica Aldo Palazzeschi, Ettore Petrolini, Marcello Marchesi (l’autore del Dottor Divago), ma anche il regista Dino Risi, autore dei Versetti sardonici (una raccolta da tempo introvabile). I componimenti di Ferrazzoli sono esattamente ed esclusivamente questo: divertenti, corrosivi, fulminanti, salaci, beffardi e caustici. Ma tra gli altri, ve n’è uno che mi ha colpito in modo particolare, intitolato L’arto fantasma (p. 94) che apre la sezione MINIMA IMMORALIA e che, proprio grazie alla sua brevità, posso qui citare per intero:

Mi accorgo che ciò che ricordo
non è il male subito
ma il bene mancato.
Però non mi rendo conto
se sia quello non ricevuto
o quello che non ho dato”
 

In relazione a questo epigramma, che ha la singolare pretesa di spostare il baricentro del dolore morale dal comodo “male subito” (sempre colpa di qualcun altro!) al fastidioso “bene mancato” (l’omissione etica), si potrebbe tirare in ballo l’intera storia del pensiero orientale e occidentale, che affonda le radici nell’inevitabile e vetusta distinzione aristotelica tra Atto e Potenza, dove il ‘bene mancato’ è, in definitiva, la Potenza inattuata (che barba!); senza tralasciare l’etica cristiana in cui l’omissione si traduce nel terrificante Peccato di Omissione; e riconnettendosi alla filosofia medievale, citando Maimonide e il Talmud, dove il “bene che non ho dato” era l’imbarazzante mancato adempimento del dovere attivo (Tzedakah); un concetto che, nella filosofia pre-illuminista, si traduce nel patetico rimpianto di Pascal come segnale della propria miseria e della distrazione (divertissement) o, peggio ancora, nell’autocritica di Spinoza come consapevolezza del fallimento nel vivere secondo ragione e nell’aumentare la propria potenza d’agire (conatus) attraverso atti virtuosi; per poi ricollegarsi, tanto per non farsi mancare nulla, all’Oriente, dove l’omissione etica è vista come un fallimento della Compassione attiva (Karunā buddista) che genera Karma negativo (India), come una banale disarmonia con il Tāo (Cina) o come mancato adempimento del faticoso dovere del momento presente nella Via (Dō) giapponese.

Tutta questa gloriosa (e faticosa) eredità filosofica, tuttavia, si è scontrata con un problema imprevisto: l’inizio del Duemila e la nostra congenita incapacità di sopportare anche un singolo secondo di noia o responsabilità.

Questo spostamento della crisi etica sull’individuo è il risultato diretto del crollo delle grandi rappresentazioni collettive del Novecento. Le adorabili utopie totalitarie (nazionalismo, comunismo, ecc.) — che, pur avendo avuto il piccolo pregio di ridurre il rischio di guerra ideologica — hanno lasciato un vuoto etico così glamour e di senso, in cui l’individualismo è divenuto assoluto, come analizzato da Zygmunt Bauman con il rassicurante concetto di Società Liquida, dove nessuno è obbligato a tenersi stretto nulla; in tale contesto fluido, forme di pensiero che riguardano il “noi” o qualsiasi elemento al di fuori del sacro perimetro dell’Io non trovano più spazio, alimentando una bulimia di immagini e video e un narcisismo da social (il cui profeta è Lipovetsky, che la chiama educatamente Era del Vuoto), dove la massima etica è la retorica del massimo guadagno col minimo sforzo (l’apologia del disimpegno), riflettendo la tesi di Byung-Chul Han sulla Società della Performance, in cui il fallimento non è mai letto, ahimè, come il “bene che non si è dato” — ovvero il fallimento della propria azione e responsabilità — bensì come un “diritto negato” (il male subito). Il vittimismo diventa la valuta più spendibile. Ogni lamentela si tramuta in un post virale che alimenta le derive populiste, amplificando la retorica dell’uno-vale-uno e la comoda tendenza a delegittimare qualsiasi forma di competenza e gerarchia. Questi sono i nostri tempi. Prendere o lasciare?