L’orizzonte che ci spetta, Marco Bellini, Ronzani editore, Prefazione di Claudio Damiani
L’ultimo libro di Marco Bellini L’orizzonte che ci spetta, edito da Ronzani nella collana Lietocolle diretta da Augusto Pivanti si presenta, a mio avviso, come una sorta di florilegio, nel senso più letterale del termine, cioè come una raccolta dei “fiori” più pregiati del campo. La raffinatezza dell’opera si coglie, oltre che nei testi, in tutti i suoi aspetti costitutivi: nella sentita prefazione di Claudio Damiani, nella suggestiva foto di copertina concessa all’autore dal fotografo Gianluca Ghezzi e persino nella qualità della carta. Ogni dettaglio è stato studiato con cura e il risultato finale è un libro bello e prezioso.
Bellini offre a chi legge una poesia davvero pacificante, dai toni sereni e rasserenanti. Sin dal titolo, l’autore dà indicazione di una misura: non la vaghezza di una dimensione disorientante ed evasiva ma, piuttosto, la faticosa ricerca di un limite prospettico adeguato. “Adeguato” rispetto a cosa? É proprio questo il punto focale, il dilemma su cui verte ciascun componimento della raccolta. L’orizzonte che ci spetta va inteso non solo come soglia ultima del visibile e del percepibile o come traguardo da raggiungere ciascuno secondo le proprie prerogative personali, ma anche come limite esistenziale tracciato per noi dal destino. Ed è nel segno della misura e della pacatezza che si sviluppa il discorso poetico suddiviso in otto sottosezioni, ognuna recante un titolo che è, per così dire, una micro poesia: “Voleva l’orizzonte”, “La voce nei muri”, “Una finestra sul tempo”, “Ragnatele senza peso”, “Nella grazia e nel tremore”, “Un nodo che era una stella”, “Ogni forma del passato”, “Il luogo della parola madre”.
Di sezione in sezione, di movimento in movimento, come se si trattasse di una sinfonia, non si può fare a meno di riconoscere il grande amore di Marco Bellini per la natura, intesa come cosmo in cui ogni cosa è immersa. La mente corre alla concezione panteistica di William Wordsworth, poeta romantico inglese di inizio ottocento, amatissimo dall’autore e citato in una delle poesie.
Il panteismo di Wordsworth consiste nella convinzione che lo spirito divino sia immanente nella natura, essa stessa manifestazione della divinità. Non si tratta di un dio esterno e trascendente ma di una forza spirituale che pervade e unisce tutte le cose, fonte di vita e di conoscenza.
Marco si spinge ancora oltre: è la stessa natura che, nella sua entità di forza primigenia e pervasiva, informa di sé anche gli oggetti, i “manufatti” dell’uomo, persino quelli più “high tech”.
La “naturalità” riguarda tutto quello che compone il nostro habitat.
Oserei definire la concezione torica di riferimento, da cui scaturisce poi la visione poetica del mondo di Marco, “ilozoismo” o addirittura “panpsichismo”: tutto è vivo, gli oggetti sono vivi, la materia stessa è intrinsecamente viva. Gli ombrelli dimenticati / sono una lezione, scrive Marco. E ancora: Nicola Tesla, il nome / di un antico scienziato diviene marchio / di un’automobile e la Natura lo accoglie. Unione del tutto. Se la “Natura” è intesa come forza vitale universale, essa anima tutte le cose, anche quelle create dall’uomo, l’artificio è semplicemente una nuova forma assunta dalla materia.
Nell’incessante processo trasformazionale della natura, tutto si rigenera e cambia forma: Non ci sono distanze incolmabili. I metalli / che ti fanno l’osso stavano già nelle pietre / hanno guardato la pioggia e il sole / e ora sorridono dentro una pace nuova.
E in quest’orizzonte di “pace nuova” l’essere umano si muove mischiandosi alle cose.
Vivere in modo armonico e in sintonia con il cosmo significa proprio “mischiarsi alle cose”.
Nella poesia a mio avviso centrale della raccolta, con versi che sembrano pennellate di un dipinto, Marco suggerisce che, riducendo al minimo l’impatto egotico sull’ambiente circostante e riconoscendo la dignità silenziosa degli oggetti e del paesaggio, si impara ad essere uno con il mondo, umano, naturale, divino, materiale: Così l’uomo si mischia alle cose, / lo fa piano, usa il tempo e la pazienza lenta di chi / ha imparato la pelle come la corteccia sui monti.

Marco Bellini, nato nel 1964, vive in Brianza. Ha pubblicato: Semi di terra (LietoColle, 2007); per le Edizioni Pulcinoelefante la poesia Le parole (2008); la plaquette E in mezzo un buio veloce (Edizioni Seregn de la memoria, 2010); Attraverso la tela (La Vita Felice, 2010); Sotto l’ultima pietra (La Vita Felice, 2013); La distanza delle orme @ – Poesie con CD Inserti (La Vita Felice, 2015); il libro d’artista Tra le spine (Edizioni Il ragazzo innocuo, 2018); La complicità del plurale (LietoColle, 2020, Premio Tra Secchia e Panaro, Premio Casentino, Premio Lago Gerundo); L’orizzonte che ci spetta (Ronzani Editore, 2025). Ha contribuito con alcune liriche al libro curato da Anna Maria Farabbi L’arte tra bocca e cibo (Al3viE 2022). Nel 2013 è risultato vincitore con inedito nelle selezioni italiane per l’European Poetry Tournament. Sue poesie hanno ottenuto riconoscimenti in diversi concorsi e sono presenti in numerose antologie, su blog e riviste di settore. È stato tradotto in diverse lingue europee. Ha curato la rassegna di eventi sulla poesia in collaborazione con l’Associazione artistico culturale Artee20 di Merate (Lc). Fa parte delle giurie del Premio Letterario Nazionale Galbiate, Concorso nazionale di poesia e narrativa “Guido Gozzano” e del Concorso nazionale di poesia Città di Sant’Anastasia. Ha collaborato con la rivista Qui libri, con il semestrale di letteratura Incroci e con il blog CasaMatta dove, assieme a Simona Bartolena, ha curato la rubrica Le parole e la Tela. Con Paola Loreto ha curato l’antologia poetica Muri a secco (RPlibri, 2019) e attualmente cura la serie di antologie Intrecci (Puntoacapo Editrice). In collaborazione con il Comune di Imbersago (LC), cura la rassegna di eventi Poesia sul traghetto.

