GIUSEPPE FEMIA “Turchese – Non meno di 7”
Nota di Laura Massacra

Non è un colore, non è una pietra dura, non è un semplice contenuto concettuale. Turchese è una coloritura dell’anima, un viaggio di formazione che il giovane apprendista, allegoricamente stregone ma profondamente psicoterapeuta, compie e fa compiere ai suoi sette adepti per caso, al fine di indagare e riappropriarsi delle radici ancestrali della propria intima idea di felicità.

Una ricerca, dunque, che, al contrario di un setting terapeutico, non tende a voler disseppellire le radici delle patologie mirando alla guarigione ma tenta un percorso differente: riportare alla luce i frammenti di felicità per ritrovare il senso più profondo e più ricco dell’esistenza e dello stare al mondo.

Sebbene, nei secoli, tanta parte di filosofia abbia scandagliato il concetto di felicità, e nonostante molte pratiche contemporanee ci guidino nella ricerca di una piena consapevolezza atta a garantire una prensione ricca del presente e della presenza, come il Chi gong e la mindfulness, in questo saggio, espresso in una forma per metà fiabesca e per metà dialogica, l’autore e psicoterapeuta compie un’operazione alquanto originale, ovvero quella di far lavorare le persone che incontra nel suo cammino con la prospettiva di riappropriarsi di una felicità perduta, ovvero di quella condizione a cui ognuno attribuisce un senso del tutto personale e che, inevitabilmente, è appartenuta al proprio vissuto in un qualche momento della propria esistenza.

Un lavoro inane, si direbbe, perché ostica è la partenza, un miraggio la meta. I personaggi in cui si imbatte il protagonista Turchese, nome d’arte che ha assunto a partire dall’incontro con un uomo metà saggio metà stregone, sono seppelliti nella propria quotidianità psichica fatta di paure, depressione, stagnazione, rabbia, ossessioni ricorrenti. Sclerotizzati in comportamenti che invitano ad una rassegnazione circa il proprio status quo, al primo incontro appaiono quasi affezionati alla propria visione del mondo e di se stessi, e quell’affetto li paralizza più di quanto manifesti la funzione di alleggerirne il carico esistenziale. Qual è allora l’innesco primario? Quale la via d’uscita? Nella miriade di percorsi possibili, attraverso Turchese l’autore funge da motore atto a scandagliare il filo della memoria che, come la corda di un pozzo, abbia il potere enorme di estrarre dall’individuo le infinite risorse che, in qualche tempo magico, ne abbiamo realizzato la pienezza e la vastità dell’essere. Ancorarsi alla memoria del proprio passato generoso, quel passato in cui tutto sembrava ricco e possibile, non è affatto facile: ognuno dei viandanti fatica non solo a ritrovare quel filo ma anche a illuminare il passato sotto l’occhio di bue della coscienza del presente.

 

 

 

Sottoporsi al tribunale della ragione, per usare una perifrasi kantiana, e cercare mediante ragione di ritrovare quella coloritura emotiva, quella spinta vitale e progettuale, quell’ottimismo, tutti elementi ineffabili e all’apparenza irrazionali che tratteggiano la dimensione della felicità, sembra proprio una contraddizione in termini, nella stessa misura in cui l’intuizione sfugge alle maglie della ragione. La ricerca della felicità si scontra dunque con la stessa condizione aporetica che sussiste tra intuizione e concetti, anche se, per citare ancora Kant “i concetti sono vuoti senza intuizione, l’intuizione è cieca senza concetti”. Perché è proprio la dimensione dello stare bene al mondo la quale, sfuggendo a una ricerca strettamente deterministica di cause ed effetti, ricalca il paradosso del mentitore: sconferma se stessa nell’atto stesso di essere detta e vissuta.

A ben vedere, tuttavia, secoli di indagini e dibattiti intorno al pianeta “Psiche”, hanno cercato di dare forma scientifica a dimensioni come l’inconscio, il rimosso, gli atti mancati, testimoniando che la sonda della ragione può, se ben costruita, attingere al pozzo dei desideri intrapsi

Giuseppe Femia

                                                               Giuseppe Femia

 

Oltre a un viaggio nel sacro, costituito dall’interiorità di ciascun personaggio, il libro si nutre di allegorie come il pozzo, i viandanti, la coda della tigre, tratte dagli esagrammi del libro dei Ching che parlano in maniera esoterica ma la cui decifrazione aiuta l’interprete a cercare sensi nascosti, nuovi e originali a partire da una data forma simbologica. E l’utilizzo di questa simbologia, nel libro, non è casuale: come un meta pensiero accompagna il percorso del lettore e tratteggia quello dell’uomo nella propria dimensione tragica. La dimensione di un Sisifo liberato che, nonostante l’essere costretto a portare il peso di un destino ineluttabile, ritrova la libertà nell’immensa e inesauribile possibilità di costruzione di senso della propria, ancorché finita, esistenza.

Questo libro è dunque un invito a riflettere, a riflettere su se stessi e a scardinare il proprio destino affinché non sia vissuto invano.