DANILO PARIS (Festival dell’arte nomadica)
intervistato da Irene Sabetta

FESTIVAL DELL’ARTE NOMADICA, intervista a Danilo Paris, ideatore e curatore di Irene Sabetta 

Non è facile riassumere in poche righe i presupposti teorici, le modalità di attuazione e la complessità compositiva del progetto “Festival dell’arte nomadica” a cura di Danilo Paris,  poli-artista e ricercatore di Ferentino. Cercherò tuttavia di sintetizzare l’impianto concettuale e le finalità di questo singolare esperimento artistico e sociale sulla base di un’intervista che Danilo mi ha gentilmente rilasciato.

L’idea iniziale è scaturita da una serie di ricerche, svolte in ambito universitario, sul “nomadismo come pratica estetica-memoriale” e sul “pensiero cartografico nella sradicatezza”, in risposta al generale e progressivo processo di perdita del genius loci riscontrato da Danilo nel territorio di appartenenza e non solo.

Partendo dai lughi “marginalizzati” è possibile raccontare una “rimozione”: un luogo marginalizzato, ovunque esso si trovi, in Africa oppure in Ciociaria, proprio in quanto “omesso”, è in grado di narrare il trauma contemporaneo della “rimozione”, che non è solo relativa ai luoghi, ma anche ad un certo modo di intendere il mondo.  Ad esempio, un’importante omissione del presente è la pratica dell’ascolto che può essere recuperata, nella proposta culturale del Festival, attraverso la poesia, intesa soprattutto come attenzione all’altro. Abitare un luogo marginalizzato, sempre più svuotato e deprivato del suo genius loci, comporta inoltre l’assenza di quelle azioni ripetute e rituali che, in qualche misura, danno senso all’abitare. Finalità del progetto di Danilo e dell’associazione “Materia Creativa”, con cui collabora a partire dalla seconda edizione del 2022, è perciò la “riaddomesticazione” di Ferentino e della Valle del Sacco: vivere localmente significa pensare globalmente, con l’obbiettivo di raggiungere un “affratellamento” tra spazi marginalizzati.

Come spiega Danilo, “è solo radicandosi nel posto in cui si vive che diventa possibile operare un racconto sensato dello spazio” (v. fenomenologia di Merleau-Ponty). E questo processo di riappropriazione di sé e di risignificazione dello spazio avviene, nella dimensione del Festival, mediante l’attraversamento ripetuto dei luoghi. Come gli zampognari che, in certi momenti dell’anno, con la loro musica riedificano simbolicamente gli spazi, così gli attori “nomadi”, durante il festival, con la loro voce e i loro corpi, ristrutturano un territorio disgregato con azioni rituali di “domesticazione”. Si tratta della ripetizione simbolica di qualcosa che forse non c’è mai stato o che è stato cancellato, ma la festa, come ricerca della “riproduzione indicibile del ricordo”, diventa rappresentazione ed emersione del possibile nonché riconciliazione con il presente. Da questo punto di vista, ci dice Danilo, ciò che accade durante il Festival può essere considerato, con un richiamo a Giordano Bruno, un “teatro della memoria”, una memoria pensata spazialmente, dispiegata, come una planimetria, come una città. Il pubblico si muove con gli attori attraverso le strade che diventano “stanze mnestiche” create “endosimbioticamente”, in una geografia immaginaria, in cui gli spazi “traumatizzati” dell’abbandono vengono infine riparati dalla desertificazione e rigenerati.

Il Covid, in particolare, privandoci della possibilità di incontrare le cose e gli oggetti del quotidiano, ha provocato un “trauma della memoria”, nonché una difficoltà di identificazione con conseguente processo di smaterializzazione della realtà e di indifferenza verso gli altri e il mondo. Rimappare il territorio, ri-simbolizzarlo, creando nuove mitopoiesi, è più che mai necessario per generare luoghi di condivisione in cui diversi immaginari possano incontrarsi.

Il Festival è dunque il tentativo di elaborare un trauma collettivo e le mappe sono metafora dello sforzo di tracciare vie di riconoscibilità all’interno di uno spazio di smarrimento. Uno sforzo di memoria, perché spazializzare vuol dire ricordare, fissare i punti dei nostri incontri che, più che nel tempo, avvengono nei luoghi. Un pensiero che è stato elaborato anche attraverso i lunghi dialoghi con il filosofo Giuseppe Cellitti.

Il Festival dell’arte nomadica, giunto alla sua quarta edizione, si articola nelle seguenti componenti: Trance(h)umanse, Arche, Falò, Radici Sonore e Homo Ludens, tutti momenti ideati al fine di “risignificare” lo spazio attraverso le pratiche che vi accadono.

Le Trance(h)umanse sono definite da Danilo come una sorta di pellegrinaggi teatrali, “un’epopea teatrale in cammino” scritta insieme da poeti e artisti, pensata in maniera complessa ed “endosimbiotica” secondo i principi della fisica della complessità per cui ogni partecipante è una variabile che imprime una direzione differente e imprevedibile all’esito della scrittura. Gli “scrittori endosimbiotici” sono stati, trai molti, Luca Cialone (con la saga fantapolitica costituita da La linea Nera e il prequel Un fuoco bianco, preceduti dal prologo Il Sepolcro) Mara Pennacchia, Giammarco Pizzutelli, il gruppo AFEDIA.)

Partendo dai “fantasmi site-specific”, installazioni trasformative dello spazio proposte dagli artisti coinvolti, viene “creato” il luogo da cui derivano i relativi “abitanti”, ossia gli attori e gli spettatori che, in una dimensione di dialogo anziché di divisione, si ritrovano in cammino come un popolo. Inoltre, essendo il testo scritto da vari autori, si crea una mappa polifonica che incentiva l’incontro con la differenza molto più di quanto possa fare una scrittura monolitica. Il “phylum” delle diverse scritture-radici, per ciascuna edizione della Trance(h)mansa, è dato dalla Trilogia dell’eco, messa in scena dell’opera Ecolalie dei mondi perduti, di Danilo Paris con i suoi personaggi pellegrini: i Mihr, i Nascituri e i Carovanieri. Il filo delle Ecolalie unisce attraverso il cammino le diverse opere gemelle, solitamente opere statiche che hanno luogo in punti prescelti della mappa, in dialogo con i “fantasmi site-specific” (tra cui ricordiamo Christian Paris, Giampaolo Parrilla e Simone Compagno).

Le Arche sono macchine ambulanti di incubazione per nascite del possibile, archeologie degli immaginari latenti, strutture di cura dei luoghi, spazi di risveglio immaginale. Spazi di cura site-specific per fantasmi site-specific.

Dispositivi organici che trattengono le tracce come memorie, sono capsule di resistenza nel diluvio, meccanismo nomade che sviluppa le crescite quanto più il deserto che li ospita cresce e quanto più i suoi abitanti vi restano.

Ogni mostra corrisponde ad un Arca o a un diverso momento dell’esilio dell’arca: ad ognuna di esse uno o più curatori e uno più artisti che si corrispondono in un organismo complesso di variabilità perpetuo. Le arche sono state curate, nell’ultima edizione, da Ilaria Monti, Chiara Gerpini e Nicola Nitido.

I Falò sono interventi autoriali, luoghi d’incontro poetici tra immaginari che, in relazione tra loro,  sappiano trovare un linguaggio di pace e scongiurare i massacri tra fratelli, che sappiano trovare il perdono al di là della lingua quotidiana della comunicazione, dentro e fuori il mito.

Radici sonore è un progetto di Simone Matteucci che propone il suono e le sonorità come radice immateriale dell’abitare.

Homo ludens, infine, è una sezione curata da Paride Fiorini, Loris Nobili e Alessandro Geralico che include giochi di ruolo nell’ottica di J. Huizinga secondo il quale “non tutto è un gioco bensì tutto è gioco”; in passato ha visto la partecipazione di Andrea Zandomeneghi, presentato da Ludovico Crecco.

Dopo Echos, Chronos e Kain, il titolo della quarta edizione del Festival, che avrà luogo nel mese di settembre 2024 nel territorio di Ferentino, è Nostòi. Con esso verrà inaugurato un nuovo ciclo triennale, il ciclo del ritorno, dopo aver chiuso quello precedente, pensato nell’esilio.