Marco Colletti “La Materia non esiste” (La Vita Felice, 2024)
nota di lettura di Letizia Leone

Al punto di frattura, dove collassano i dogmatismi e i vocabolari annessi, parole funzionali quali verità, io, mondo, realtà…, si situano anzi si ‘formano’ i versi di Marco Colletti.  Perché Marco, in fondo è un antico scettico per il quale la struttura della realtà non solo è inconoscibile (eppure così manifesta nella sua illusorietà!) ma leggera perché impastata di vuoto. Un vuoto costituzionale alla danza vibrazionale degli atomi. L’autore stesso definisce il suo libro un viaggio nella trasparenza delle cose: «La Materia non esiste è una raccolta di cento componimenti, ispirata dal sogno o forse dall’inganno per i quali, al di là delle apparenze, ci muoviamo negli interstizi vuoti lasciati dalle infinitesimali particelle individuate dalla scienza.»

E se una poesia come questa è attraversata da interrogazioni ontologiche fondamentali sul senso dell’Essere e dell’Ente, ogni dubbio (o enigma, sogno, inganno) è elaborato emozionalmente, sofferto nella parola poetica che ha la natura della carne e del sangue. L’investigazione intellettuale pertiene alla scienza o alla riflessione filosofica (tanto che oggi si è perfino giunti all’ipotesi di un Universo quale immenso ologramma fluttuante), ma il poeta ha sempre avuto con sé la bacchetta del rabdomante per catturare l’indicibile. Il canto di Orfeo ha sempre travalicato i limiti, ed è giunto ad esprimere ciò che le cose, (la materia), non sanno di essere: «Tendono alla chiarità le cose oscure, / si esauriscono i corpi in un fluire / di tinte: queste in musiche. Svanire /è dunque la ventura delle venture…», scriveva Montale. Eppure come Orfeo, Colletti sa bene quanto il destino luttuoso di ogni avventore dell’aldilà preveda il fallimento, lo smacco, l’insufficienza della mente logica. Solo la poesia ha le sue ragioni e Nella poesia non c’è ragione, ci confessa l’autore nella sua forte dichiarazione di poetica che suggella la raccolta: Come nella vita non c’è ragione / di esistere. Chiunque la voglia / trovare non vi entrerà mai. Ma / rimarrà sempre a citofonare / fuori da un cancello, a cercare /chiavi, a implorare un guardiano per passare…In fondo qui si possono trovare occulte indicazioni di lettura, bisogna delirare, uscire dai solchi e andare alla deriva tra i testi, tra le epifanie della materia, i volti amati, un papavero/rosso che, colto, muore lo stesso giorno, e poi tra i sentimenti che vanno attraversati come se fossero fatti di atomi essi stessi, ci informa in qualche parte del libro l’autore. L’effimero e la caducità. Sfolgoranti apparizioni e il buio del nulla, nel movimento intermittente dell’onda universale… La materia sprofonda, fugace, e che cos’è allora la vita? …viaggio nel nulla mascherato / di visioni, questo viso che è / e non è, quella sospensione tra le pieghe delle rocce, dei fiori, / del sangue, che è l’anima. Io penso /e al contempo mi distolgo.

L’intensità immaginifica del verso di Marco Coletti, artista digitale, esalta naturalmente quella transitività connaturata al codice della poesia e delle arti visive: «Le sue opere digitali sono poesie visive e le sue poesie visioni», leggiamo infatti nella biografia in quarta di copertina.

Lingua e immagine convivono e si compenetrano: mio libro in visioni dal folgorante/ conforto…, e amplificano il prisma multicolore di questo incantesimo maligno dell’esistenza: nella eco del silenzio, che sinistra gorgheggia di visioni.

Il poeta ci apre tre portali dell’io, (Mens, Cor, Sensus) che vanno configurandosi come ‘ipotesi’ stilistiche o possibilità di approccio alle cose. Al centro il cor, l’amore, la luce e il lutto e la dedica sofferta ed intensa ad Ofelia, musa emblematica ed eterna.

La mente emozionale, il sensus, ci colloca nell’istante della pura percezione, messi da parte i pensieri, le teorie, i metodi non esiste altro progetto che il ‘percepirsi’, materia nella materia: di scavallare il senso ora/ è il momento. A me le parole / più care che intonano versi / di puro suono. La musica…

L’«aorgico», per usare questo neologismo recondito del sublime hölderliniano, e cioè l’illimitato, l’informe, l’infinito in antitesi all’organico. Il naturale senza forma in chiasmo dialettico con l’organico, il culturale (scrive il poeta: la fatica umana di dare /corpi, nasi, bocche, e cementarli / di parole, forgiare statue su ciò / che è visione, ma visione nuda); ma qui il particolare che si smarrisce nell’universale vuole essere il senso di una riconciliazione del sé con l’energia cosmica, proprio nello sconfinamento organico, mentale, orfico…quasi un ‘compimento’ che Rilke dei “Sonetti a Orfeo”  definirebbe come «il fondo infinito della tua intima oscillazione». Lasciarsi andare alla spirale dell’energia universale sulle note della vibrazione cosmica. Abbandonarsi all’onda oceanica della vita che esplode in una miriade di colori, immagini e metamorfosi prima di ritirarsi nell’invisibile, per poi rifrangersi ancora e ancora in un moto perpetuo.

Nell’ultima sezione il discorso poetico di Colletti decolla in uno stile visionario denso di allusioni intertestuali: i platonici sentieri raccordano i tempi, le memorie, i fantasmi:

 Non si può appartenere alla leggerezza,

noi che la gravità tutto sostiene

e la mente stanca affossa la terra.

Tutto è il peso che ci circonda, e

l’immaginazione si fa rade pietre

colorate. Respiro, espiro e quel vocio

polmonare, che si affianca alle maree,

cade a ogni istante nella bianca fauce

del mondo. A quel centro del cosmo

che tutto tiene, quell’altrove che tutto

attrae. Lì, nell’impensabile, una farfalla

alata, lenta un battito, si irradia all’azimut

dell’universo e scoscesi pesiamo

di grammo in grammo in meno verso

l’eterea iridescenza del nulla nel pensiero.

 Questo il paradosso di cui si nutrono i versi di Colletti: immagini iridescenti che prolificano vertiginosamente sull’abisso del nulla. Andrea Emo ne ha scritto in proposito pagine luminose che intrecciano poesia e filosofia: «L’arte è il paradosso che crea le immagini eterne mediante l’iconoclastia, mediante la profonda iconoclastia della negazione. Le immagini sono eterne perché giustificate…dalla negazione; perciò sembrano danzare sul nulla, sul colore nero delle tenebre della negazione. Anche il linguaggio, la cui origine è sacra, è una creazione della nostra intima iconoclastia. Come le immagini, così anche la felicità nasce dalla disperazione, dall’iconoclastia della disperazione…perciò la felicità, che nasce come un’immagine o come una Parola dalla profonda disperazione della negazione, è di essenza eterna, ma è sempre effimera.

Niente sa essere effimero, niente ha l’esperienza dell’effimero, come l’eterno.»