«Può una sera a teatro cambiare in un istante la tua vita?» intervista a Marco Onofrio intorno, sul nonostante il teatro, a cura di Tiziana Colusso
Ho scelto come inizio questo passaggio, inserito nel testo drammaturgico È caduto il cielo di Marco Onofrio (Edilazio 2022), proprio perché per me l’esperienza del teatro è stata fondante e destabilizzante al tempo stesso. Tanti anni fa, in una sera dei primi anni ‘80, giovane cronista teatrale di una radio romana ora chiusa, Radio Blu, entrai al Teatro in Trastevere (ora cinema) a vedere Leo de Berardinis in scena, che masticava Dante, il jazz, l’alcool, teatro comico e tragedia, e subito mi innamorai di quell’attore/guitto miracoloso, e per fulminea estensione mi innamorai del teatro tutto. Da qualche parte dovrei avere ancora registrata l’intervista a De Berardinis, su una cassetta audio di quelle a nastro che si usavano allora, con il logo di Radio Blu. Leo De Berardinis era della genia di Carmelo Bene e di altri attori-registi che incarnavano il teatro nel loro stesso corpo. Senza copione, né testo scritto, ogni sera uno spettacolo diverso. Poi c’è stata la generazione di Federico Tiezzi e Sandro Lombardi, la Gaia Scienza, di Mario Martone e Toni Servillo quando ancora facevano solo teatro, rispettivamente con Falso Movimento e il Teatro Studio di Caserta.
Poi il tempo ha portato con sé i demiurghi dell’avanguardia, e il teatro è sembrato rientrare nei ranghi di una sequenza ordinata di drammaturgia e messa in scena, con ruoli distinti e distanti. Io stessa mi sono avventurata a scrivere e pubblicare alcune strampalate “drammaturgie poetiche”, solo in parte messe in scena, e sono sempre alla ricerca di indizi su cosa diventa il teatro, e di sodali nell’avventura teatrale.
Ne ho trovato uno in Marco Onofrio, scrittore di rango, che si cimenta da decenni nei vari generi letterari: poesia, prosa, saggistica e – appunto – drammaturgia. Questo suo testo recente, È caduto il cielo, mescola in un pastiche surreale, a tratti cinico e a tratti quasi mistico, una vicenda che ha come protagonisti Dio, un angelo, Grebel, a cui tocca fare l’“annunciazione” a un teatrante grottesco, Darwin Brokausen, una sorta di Père Ubu con mania di grandezza, e poi un manipolo di teatranti disperati, disperatamente cialtroni, e un barbone saggio che vede nel teatro, come luogo fisico, un rifugio dalle intemperie.
Marco, questo testo è stato già messo in scena? E in generale, com’è il tuo rapporto come drammaturgo con le messe in scena, nella situazione a dir poco stagnante del settore teatrale in Italia, dove non si fanno più investimenti pubblici e nemmeno privati?
No, Tiziana, non è stato ancora messo in scena. Credo peraltro che difficilmente lo sarà, almeno per vie ufficiali, sia perché i 9 personaggi e la non semplice scenografia renderebbero lo spettacolo assai dispendioso, e sia perché oggi la filiera produttiva del teatro risulta bloccata “a monte”. C’è una diffidenza generalizzata, a partire dai fruitori che ancora frequentano le platee. Lo spettatore medio (a meno che non sia parente o amico del drammaturgo) non scommette i suoi soldi su spettacoli nuovi, senza cioè garanzie certe di autore e/o di attore già noto al grande pubblico. Di conseguenza, un eventuale impresario non ha garanzie di guadagno, e neppure di copertura, a fronte dell’investimento necessario per la messa in scena. Hanno tutti bisogno di andare “sul sicuro”. Questo spiega perché in Italia i cartelloni propongono sempre lo stesso menù, rimasticato più o meno in varie salse. I finanziamenti pubblici sono irreperibili, o complicati da decifrare, o sottoposti a sbarramenti contro cui il drammaturgo privo di compagnia teatrale finisce inevitabilmente per impigliarsi. La realtà bruta dice che se volessi mettere in scena È caduto il cielo in un teatro importante, ufficialmente accolto nella programmazione stagionale dello stesso, dovrei convincere un Alessandro Gassman o un Alessio Boni o un Valerio Mastandrea a interpretare qualcuno tra i personaggi della pièce – che so, Dio, Darwin, Grebel? – e poi ingoiare per mero opportunismo l’amarezza di vedere che il tam-tam e il clamore mediatico e l’eventuale, probabile successo dipenderebbero non tanto dal valore del dramma rappresentato, quanto dalla stessa presenza dei suoi carismatici interpreti, prima ancora che aprano bocca. Detto alle spicce, la gente farebbe il biglietto “a scatola chiusa” già solo per vedere gli attori famosi. L’alternativa? Trovare entrature politiche di copertura – e allora per magia tutto si risolve “all’italiana” – o addirittura investire in prima persona un capitale di svariate migliaia di euro, con perdita sicura, per finanziare in autarchia le diverse voci di spesa: affitto del teatro, scenografia, costumi, prove, ufficio stampa, borderò, ecc. Sono entrambe delle vie che escludo in partenza. Quando ho avuto l’onore e il piacere di vedere in scena un mio testo, ed è accaduto diverse volte, è dipeso sempre da circostanze particolari e in contesti lontani dai grandi circuiti. Ricordo, ad esempio, nel luglio dell’ormai lontano 1996, una “tre giorni” al Teatro Colosseo di Roma dedicata a una mia commedia grottesca dal titolo I più furbi siamo noi: ebbe anche un discreto successo, ma la rappresentazione veniva accolta come “saggio di fine anno” all’interno di un corso di teatro e drammaturgia che appunto avevo frequentato come autore. Situazioni di questo tipo, dunque.
Tu hai sperimentato molti registri, dalla narrativa alla poesia alla saggistica. Per quali ragioni specifiche decidi ogni tanto che per una storia sia adatto il genere drammaturgico? Io riguardo a un mio testo dedicato al massacro del Circeo ( Il precipizio) dicevo che “la partitura teatrale si presenta spontaneamente quando si tratta di trasmettere le molte voci che si accavallano intorno ad un evento complesso e si dispiegano in una polifonia”. È così anche per te? Ci sono storie che richiedono necessariamente la forma drammaturgica o è un arbitrio dell’autore?
È una faccenda che ha del misterioso, poiché non è tanto lo scrittore ad imporre il genere all’opera ma è l’opera stessa che, il più delle volte, emerge e si impone per vocazione spontanea all’interno di un genere determinato. Alcune storie – sono d’accordo con te – richiedono necessariamente la forma drammaturgica, e sono quelle fondate sul conflitto problematico delle idee, degli interessi, delle visioni del mondo: implicano una tensione dialogica da cui scaturisce l’evolversi del dramma, e la polifonia delle voci è lo strumento che occorre orchestrare in “partitura” per sciogliere la matassa e fare luce sull’ambivalenza delle forze in gioco. Tuttavia, nulla vieta la transcodifica del genere e quindi la possibilità di adattamento creativo dall’uno all’altro. Da un romanzo, da un poema e anche da un saggio è possibile ricavare un testo teatrale, e viceversa. È caduto il cielo, ad esempio, nasce come romanzo breve dal titolo Trambusto in Paradiso; ma poi mi sono accorto che il testo avrebbe funzionato meglio come dramma e l’ho di conseguenza trasformato. In questi casi è anche interessante collazionare il testo originario e il suo adattamento per rintracciare le varianti che il nuovo genere ha imposto o suggerito, poiché spesso l’opera svela facce inedite del suo “prisma” che le consentono di evolvere e, talvolta, migliorare.
Secondo me ciò che rende il teatro necessario, e non sostituibile con nessun altro genere, è la dimensione di rito pubblico, catartico. La lettura di un libro è necessariamente un atto solitario. Ma un testo sulla scena – monologico o dialogico – chiama in causa la comunità stessa, il patto sociale per così dire, anche se con molta meno forza di quello che succedeva ai tempi della tragedia classica.
Sono assolutamente d’accordo, ma purtroppo in Italia la coscienza critica dello spettatore rasenta lo zero: non si va a teatro per celebrare un rito catartico collettivo – funzione, semmai, assolta oggi dai concerti di musica leggera o dai grandi eventi sportivi – ma per questioni di mero intrattenimento, dove appunto la “distrazione” attrae, in senso antitetico alla catarsi, come vacanza del sé, oblio dei problemi, rimozione dei significati e, per dirla semplice, divertimento (etimologicamente inteso, da “divertere”). Per citare uno slogan dei tempi passati, ma a mio dire sempre attuale, “l’estetica senza etica è solo cosmetica”. E appunto l’etica postmoderna del “loisir” dovrebbe portare a una preziosissima ricentratura delle energie degli individui, plagiate e sfiancate dal flusso ipnotico della comunicazione ipermediatica. Il teatro dovrebbe conservare la funzione di nicchia umanistica, mantenersi e proporsi come luogo “poietico” per capire, risvegliarsi, resistere. Macché! Oggi quasi nessuno va a teatro per mettersi in gioco e farsi cambiare la vita, come dicevi all’inizio, ma per confermarla e conformarla nei suoi cliché più venefici, rimasticando luoghi comuni che ti facciano sentire in zona di comfort, accolto e approvato dalla maggioranza silenziosa. Il teatro finisce per essere, incredibile a dirsi, una emanazione posticcia delle serie televisive e del loro mondo patinato: non si cercano testi di valore con cui nutrire la propria anima di consapevolezza, ma idoli da vedere de visu e da applaudire solo perché hanno già sfondato sul grande e sul piccolo schermo.
Hai in cantiere altri testi teatrali?
Sì. Il succitato I più furbi siamo noi è inedito, vorrei pubblicarlo appena possibile. Ho in forma di abbozzo abbastanza sviluppato altri due testi, sempre dell’impianto tragicomico e satirico che prediligo per la scrittura drammaturgica.
Hai mai pensato di dedicarti tu stesso alla messa in scena di un tuo testo drammaturgico?
Una forma di “regia” è già insita nella scrittura, soprattutto a livello strutturale, e si rende esplicita nelle cosiddette “didascalie”. Mi piacerebbe molto, soprattutto per evitare aberrazioni dell’autorialità originaria, che resta malgrado tutto quella del drammaturgo. Però dalla carta alla scena c’è un salto grosso come il mare, ed è giusto che sia il regista – con le sue specifiche professionali – a farsi autore dello spettacolo. Anche perché non avrei le competenze per guidare gli attori nella recitazione. A ognuno il suo lavoro.
Marco Onofrio è nato nel 1971 a Roma, dove vive e lavora. Scrittore, saggista, poeta, critico letterario, ha pubblicato 46 libri – tra cui 16 opere poetiche – con cui ha vinto decine di premi letterari nazionali e internazionali. È tradotto e pubblicato in 5 lingue. Di lui si è parlato, con recensioni e segnalazioni, su numerose testate giornalistiche, tra cui «Corriere della Sera», «la Repubblica», «Il Tempo», «L’Unità», ecc. Ha partecipato come ospite a trasmissioni radiofoniche e televisive di carattere culturale presso la RAI, emittenti private e web radio. Svolge attività di consulente editoriale, recensore, ideatore e organizzatore di eventi culturali. Ha collaborato come autore e critico a blog letterari, riviste e quotidiani. Attualmente è membro del “Gruppo dei Romanisti” (cultori storici di Roma), caporedattore della rivista trimestrale “Lazio ieri e oggi”, direttore artistico del Festival poetico “Visioni”, presidente del Premio letterario nazionale “Moby Dick”, presidente del Premio letterario internazionale “Ibn Hamdis”, vicepresidente del Premio letterario internazionale “Roberto Farina”, membro di giuria premi internazionali di poesia giovanile “Masio Lauretti” e “Mario Clementoni”, nonché autore e amministratore del blog letterario “Del cielo stellato”. Sito internet: marconofrioscrittore.wordpress.com